Per la configurazione della fattispecie di cui all’art. 544 ter c.p. è sufficiente che l’azione sia causale rispetto all’evento tipico. Accanto a una condotta generatrice di lesioni, si colloca altra condotta, ugualmente rilevante sul piano penale, che attenti al benessere dell’animale e alle sue caratteristiche etologiche attraverso comportamenti incompatibili con le esigenze naturali dell’animale che vanno inscindibilmente salvaguardate. Peraltro, la nozione di comportamenti insopportabili per le caratteristiche etologiche non assume un significato assoluto (come raggiungimento di un limite oltre il quale l’animale sarebbe annullato), ma un significato relativo inteso quale contrasto con il comportamento proprio della specie di riferimento come ricostruita dalla scienza naturale. E, in questo senso, la collocazione degli animali in ambienti inadatti alla loro naturale esistenza, inadeguati dal punto di vista delle dimensioni, della salubrità, delle condizioni tecniche vale certamente a integrare la fattispecie nei termini oggi richiesti dal legislatore.
Il reato di maltrattamento di animali, introdotto dalla l. 20 luglio 2004, n. 189, art. 1, comma 1, prevede la condotta di chi “per crudeltà o senza necessità cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili”. Perché possa dirsi integrata tale fattispecie è necessaria la volontarietà della condotta lesiva in danno dell’animale, ovvero la volontarietà di una condotta che sottoponga lo stesso animale a sevizie o comportamenti o lavori o fatiche insopportabili.
La Corte ha avuto modo di ribadire nel caso in esame, la differenza che esite tra la fattispecie di cui all’art. 544 ter c.p. – Maltrattamento di animali – e l’art. 727 c.p. – Abbandono di animali.
La prima fattispecie, che punisce chi «cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche», è caratterizzata dal solo elemento soggettivo del dolo e non anche da quello della colpa, nonché dall’ulteriore presupposto della crudeltà o della mancanza di necessità. La seconda fattispecie, invece, punisce, anche a titolo di colpa, la meno grave condotta di chi «detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze», senza richiedere la crudeltà o la mancanza di necessità, né la causazione di lesioni, o la sottoposizione a sevizie, comportamenti, fatiche, lavori insopportabili, escludendo che vi sia alcuna possibile identità fra le due fattispecie, perché la seconda, di portata più ampia, rappresenta un’ipotesi residuale rispetto alla prima; e ciò giustifica sul piano costituzionale la previsione di due ipotesi di reato distinte, nonché di sanzioni proporzionate alla loro diversa gravità. Nella distinzione fra il delitto di maltrattamento di animali, previsto dall’art. 544 ter c.p. e la contravvenzione di cui all’art. 727 c.p.., che punisce, al secondo comma, «chiunque detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttivi di gravi sofferenze», la Cassazione ha anche già avuto modo di affermare che “la detenzione di uccelli in gabbie talmente piccole da cagionare il danneggiamento e l’avulsione del piumaggio, ed il loro impiego nell’attività venatoria quali richiami vivi, fuori dai casi e dai modi consentiti dagli artt. 4 e 5 della legge 11 febbraio 1992, n. 157, costituiscono sevizie insopportabili per le caratteristiche etologiche dell’avifauna, tali da integrare non già la contravvenzione di cui all’art. 727 c.p.., ma il delitto di maltrattamento di animali di cui all’art. 544-ter c.p..
Ora, nel caso in esame, i giudici hanno concordemente escluso la qualificabilità della condotta dell’imputato ai sensi dell’art. 727 c.p. anziché ai sensi dell’art. 544 ter, comma 3, c.p.., sottolineando come cinque degli esemplari di uccelli detenuti dal ricorrente (una peppola e quattro fringuelli) fossero custoditi al buio, in gabbiette poggiate a terra e di dimensioni assai anguste, due di essi privi della coda o delle piume della coda, o comunque con un piumaggio che rendeva loro impossibile volare (a causa della provocata compromissione delle penne remiganti e di quelle timoniere), tutti e cinque dunque in condizioni tali da non poter volare e da compromettere la loro stessa sopravvivenza, sottoposti alla pratica denominata “chiusa” (ossia alla custodia al buio per lunghi mesi allo scopo di falsare il loro ciclo annuale in modo che una volta portati all’aria aperta, in autunno e in inverno, durante la stagione venatoria, convinti che fosse giunta la primavera, richiamassero i loro simili, per essere poi abbattuti dai cacciatori), così determinando uno stravolgimento completo della fisiologia ed etologia degli uccelli e realizzando comportamenti incompatibili con le caratteristiche etologiche della specie. È allora evidente come tale condotta configuri il delitto di cui all’art. 544 ter c.p., perché non solo “senza necessità” ma anche illecitamente, il ricorrente ha sottoposto gli esemplari custoditi nelle gabbie a comportamenti insopportabili per le loro caratteristiche etologiche, provocando in alcuni di esse l’avulsione delle piume, tra l’altro allo scopo di utilizzarli come richiami vivi, pratica non consentita per la peppola e il fringuello.
Se è infatti vero che la stessa legge n. 157 del 1992 prevede l’utilizzo di esemplari di avifauna come richiami vivi (agli artt. 4, comma 5, e 5, comma 7, peraltro con modalità che non risultano essere state rispettate dal ricorrente, essendo vietato l’uso di richiami che non siano identificabili mediante anello inamovibile, numerato secondo le norme regionali che disciplinano anche la procedura in materia), ciò viene consentito solo in relazione a specie (allodola, cesena, tordo sassello, tordo bottaccio, merlo, pavoncella e colombaccio) che non ricomprendono quelle indicate in imputazione (peppola e fringuello), con la conseguente corretta esclusione, anche sotto questo profilo, della liceità della condotta, e della affermazione della sottoposizione degli esemplari di uccelli detenuti nelle condizioni descritte a comportamenti insopportabili per le loro caratteristiche etologiche, in guisa tale da violare il precetto dei contestato art. 544 ter c.p.